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giovedì 16 agosto 2018
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pâtes et pattes |
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Questa è una delle mie ultime letture
Il libro comincia con un "inizio": dopo 36 anni Feliks Zhukovski, a causa di un’influenza, inizierà a parlare con Madame Lefèvre, la sua padrona di casa, ma lui ancora non sa che da questo scaturiranno una serie di eventi che modificheranno drasticamente il suo vivere. E’ il 1991 e lui ha 61 anni, autore della "Guide Jaune", unica guida turistica dei paesi dell’Est, riceve l’offerta di acquisto da parte di una casa editrice americana, per lui da sempre uomo di sinistra, la decisione comporta innumerevoli ripensamenti e lo porta ad un viaggio fisico ed interiore.
Rincontrerà persone care del suo passato, in America si ricongiungerà con il fratellastro, poi si spingerà nuovamente in Polonia per conoscere, finalmente, la verità circa l’abbandono da parte della madre e poi a Berlino per ritrovare Kristin, che lavorava in un bar della Stasi, unica donna di cui si era veramente innamorato. Il cammino, soprattutto interiore, che compirà sarà arduo, impegnativo, doloroso e non potrà opporsi ai cambiamenti che interverranno in quella che, finora, era stata un’esistenza monotona.
Non è una lettura da “sotto l’ombrellone”, ma la consiglio vivamente, bisogna solo mettere in conto che entrare nella vita di Feliks significa attraversare il dolore.
Durante la lettura ho "segnato" tantissimi punti che mi hanno colpito, troppi, ne ho stralciati parecchi e vi segnalo questi, ma vi assicuro che questo è un libro che ad ogni pagina dona un'emozione, una riflessione:
“Avremmo potuto parlare del tempo, e infatti lo facevamo, cosí come di piccoli e innocui cambiamenti nel quartiere. Erano conversazioni che alla bisogna riempivano qualche minuto sul pianerottolo, ma che non si poteva dire costituissero un’amicizia. Nulla che mi sorprendesse o di cui mi rammaricassi. La sorpresa fu semmai che, dopo trentasei anni, quando ero ormai di gran lunga l’inquilino piú anziano del palazzo, le cose cambiarono di colpo. E che proprio madame Lefèvre diventò la scintilla per tutti gli altri cambiamenti nella mia vita. La sorpresa fu anche, direi, che decisi di stare al gioco.”
– È stato un sacco di tempo fa, – dissi. – Da allora sono cambiate molte cose.
– E molte stanno cambiando adesso, – disse madame Lefèvre, accettando la mia sterzata verso argomenti meno personali. –
Chissà che delusione dev’essere per lei –. Quell’ultima osservazione poteva implicare una certa simpatia, ma non la comunicò.
– Lo è, infatti, – confermai. – Non certo quel che speravo succedesse. Molti dei cambiamenti che stanno avvenendo nell’Europa dell’Est non mi piacciono affatto. Non credo saranno in meglio. Preferivo come andavano le cose prima, quando tutto era chiaro e tutti sapevano dove stavano.
– Se mi consente, Feliks, trovo strano che una persona che voleva cambiare tutto scopra di rammaricarsi del cambiamento.
– E se lei consente a me, Sandrine, trovo strano che una persona che non voleva cambiare niente scopra di accoglierlo con gioia.
A quella frase non seppe cosa rispondere. In effetti una risposta non c’era. Tutto dipendeva dal tipo di cambiamento che uno voleva, se lo voleva, e di fatto era molto tempo che io non ne cercavo piú, nel mondo cosí come nella vita.
Sí, sono ebreo. I miei nonni lasciarono la Russia negli anni Trenta, per sfuggire alle purghe staliniane, e i miei genitori arrivarono qui con loro. Io sono nato a New York.
– E si sente americano?
– Certo che sí –. Quella domanda parve stupirlo. – Assolutamente americano. E cosí si sentivano i miei. Se è per quello, pure i miei nonni. Non impararono mai a parlare bene l’inglese, ma erano infinitamente grati all’America che li aveva accolti. Perché me lo chiede?
– Perché, sebbene viva a Parigi da piú di quarant’anni, ho scoperto di non sentirmi francese. Per me Parigi non è casa nel modo in cui New York lo è per lei.
– Casa è dove abita il cuore, – disse Bergelson. – Il mio abita qui, in questa città. E il suo?
Mi colse alla sprovvista. La forza dei cliché non smette mai di stupirmi. Prima Sandrine Lefèvre e adesso Mark Bergelson. Il mio cuore dove abitava? Nessuno doveva avermi mai posto quella domanda, né dovevo essermela posta io. Se mi avessero costretto a rispondere, probabilmente avrei detto che stava nello stesso posto in cui abitava la testa, ma non sapevo piú nemmeno dove stava quella.
– Non lo so, – dissi.
Sul piano pratico invece lo ero perché mi si erano presentate altre e piú facili alternative. Ma non avevo mai deciso di non agire; non avevo mai preso alcuna decisione; semplicemente, avevo evitato di prenderla. In un certo senso mi sentii sollevato dalla cosa. Per quanto delicatamente formulata, l’osservazione di Bergelson mi aveva punto sul vivo. Davvero, perché non avevo mai scelto di vivere in un paese comunista, essendo oltretutto nato in uno di essi? Adesso vedevo la risposta a quella domanda. Ma era una risposta che mi sconcertava tanto quanto la domanda. Per tutta la mia vita adulta avevo aderito a un’ideologia che invocava il cambiamento, il cambiamento radicale, come soluzione ai problemi della società. Ciononostante, non avevo mai accolto il cambiamento nella mia vita. Anzi, avevo sempre opposto resistenza. Messa in quei termini, non ero meno conservatore dei destrorsi che avevo sempre disprezzato. I cambiamenti piú grossi mi erano stati puntualmente imposti dall’esterno, e per trentasei anni non ce n’erano stati affatto. I cambiamenti non mi piacevano. E non mi piacevano quelli che mi venivano imposti adesso.
– Sai, Feliks, la cosa buffa è che tu e io vediamo le cose in modo molto simile, solo che poi tiriamo conclusioni diverse. Tu vedi un paese con gente amichevole e normale e subito ti sale la diffidenza. Io invece dico, be’, che c’è di male? Tu vedi un paese dove la gente ha la possibilità di fare soldi e vivere meglio e pensi che sia ingiusto. Io dico, be’, e perché no? Tu vedi un paese dove la gente vede le cose in maniera semplice e non complicata e pensi che sia stupida. Io dico, ehi, questo sí che è un bel modo di prendere la vita!
– Tua madre aveva sempre sperato di rivedervi tutti e due. Anzi, credo se lo aspettasse proprio. Era la speranza a tenerla viva. Ma nel 1979, quando si ammalò, la speranza cominciò ad abbandonarla e si rese conto che non vi avrebbe rivisti mai piú.
Perciò vi scrisse una lunga lettera per spiegarvi tutto quello che le era capitato, per raccontarvi tutto ciò che voleva dirvi. La consegnò a me. Non l’ho letta, ma l’ho sempre conservata. Mi aveva pregato, nel caso un giorno tu o Woodrow foste comparsi, o se mi fosse capitato di incontrare qualcuno che vi conosceva, di farvela avere. Quindi ora io la consegno a te
Ma cosa poteva esserci di puro nella vita umana? Solo la morte. Ecco l’unico elemento puro della vita. La ricerca dellapurezza poteva passare solo dalla morte. Io di morte mi ero saziato abbastanza. Ora volevo la vita.
Kristin è rimasta tre settimane, tre settimane meravigliose. Cosí naturali. Credo le facesse piacere stare con me. Di sicuro le faceva piacere essere a Parigi. Per quanto mi risultasse difficile da comprendere, di fatto a cinquantatre anni era la prima volta che usciva dalla ex Germania Est, a parte quelle in cui era stata a Berlino Ovest. Capire questo mi era quasi impossibile, talmente ero abituato ad andare in altri paesi, a viaggiare continuamente, a operare confronti o a non riuscire a operarne. Per me era inconcepibile che qualcuno non l’avesse mai fatto. O, come continuava a ricordarmi Kristin, che non gli fosse mai stato permesso farlo. E cosí eccola lí a guardare Parigi con occhi vergini, o tutto il mondo con occhi vergini, e la sua meraviglia ha contagiato anche me.
A tutti noi sono successe cose che non sarebbero dovute succedere, che avremmo preferito non succedessero. Cose che ci siamo dovuti buttare alle spalle non per fingere che non siano mai accadute, ma per non rimuginarci troppo sopra, per poterci fare i conti e riuscire a costruire una nuova vita, a conoscere nuove persone. Nelle stoffe che tutti noi ci siamo tessuti esistono delle linee di faglia, ha detto lui, punti in cui la trama e l’ordito dell’esistenza si sfilacciano: se continui a tornarci sopra rischi di far sfilacciare anche tutto quello che hai tessuto dopo. Ecco che paura aveva quel giorno.
– Felice? – mi ha chiesto Kristin.
– Sí. Molto.
– Allora perché sei cosí triste?
– Senso di colpa, immagino.
– E per cosa ti senti in colpa?
– Per la felicità, – ho detto. – È stato un anno talmente straordinario. Non avrei mai creduto di poter avere un anno cosí fantastico.
Ho te. Ho Angelika. Ho ritrovato Woody. Ho venduto la guida. È pazzesco.
– E allora dove sta il problema?
– La mamma, – ho detto. – Scoprire cosa le è successo. Scoprire la sofferenza di cosí tanti altri esseri umani. E la mia stupidità, immagino.
– Non devi farla diventare la tua sofferenza, adesso.
– No, però non mi sembra giusto. È che pensi: se avrò un anno fantastico, sarà un anno fantastico, punto. Invece avere un anno
cosí e scoprire cose talmente terribili, e intanto continuare a sentire che è fantastico… insomma, non mi sembra giusto.
– Cosí è la vita, – ha detto Kristin. – Prendila com’è.
Alla fine credo esistano due tipi di storia. C’è quella dei grandi avvenimenti, del progresso scientifico in marcia, dei contrasti ideologici, delle guerre e dei disastri. E poi c’è quella vissuta da milioni di persone, in tutta Europa e in tutto il mondo. La storia delle nascite e dei neonati piagnucolanti, dell’infanzia innocente e dell’adolescenza scontrosa, della perdita dell’innocenza, dell’amore e del suo lento evaporare, delle fatiche e dei salari, del matrimonio e della famiglia, della morte. E nessuno dei grandi avvenimenti, per quanto stupefacenti, può distruggere la cronistoria di quelle vite individuali per coloro che restano. Tutto ciò che rimane è il mutevole e immutabile ciclo del tempo.
La storia dei grandi avvenimenti è rivoluzionaria e radicale, crea lacerazioni scomposte nel tessuto continuo del nostro mondo.
Dopodiché la storia delle piccole cose torna a riaffermarsi, riprendono ritmi e cicli di vita prudenti e moderati; la storia delle madri e del continuum temporale, la sarta operosa che diligentemente rammenda le lacrime scomposte restituendo integrità al tessuto.
Forse c’è persino una terza storia, la storia vera: il croupier del tempo, che prende le altre due storie e le agita insieme come dadi in un bussolotto, osservando con neutra noncuranza le ondate di marea dei grandi avvenimenti sferzare capricciose le barchette delle
vite individuali. Chi di noi si sente baciato dalla fortuna oggi? Faites vos jeux.
Da qualche parte, in questa concatenazione di eventi piccoli e grandi, prende forma la nostra vita.
Durante la lettura ho "segnato" tantissimi punti che mi hanno colpito, troppi, ne ho stralciati parecchi e vi segnalo questi, ma vi assicuro che questo è un libro che ad ogni pagina dona un'emozione, una riflessione:
“Avremmo potuto parlare del tempo, e infatti lo facevamo, cosí come di piccoli e innocui cambiamenti nel quartiere. Erano conversazioni che alla bisogna riempivano qualche minuto sul pianerottolo, ma che non si poteva dire costituissero un’amicizia. Nulla che mi sorprendesse o di cui mi rammaricassi. La sorpresa fu semmai che, dopo trentasei anni, quando ero ormai di gran lunga l’inquilino piú anziano del palazzo, le cose cambiarono di colpo. E che proprio madame Lefèvre diventò la scintilla per tutti gli altri cambiamenti nella mia vita. La sorpresa fu anche, direi, che decisi di stare al gioco.”
– È stato un sacco di tempo fa, – dissi. – Da allora sono cambiate molte cose.
– E molte stanno cambiando adesso, – disse madame Lefèvre, accettando la mia sterzata verso argomenti meno personali. –
Chissà che delusione dev’essere per lei –. Quell’ultima osservazione poteva implicare una certa simpatia, ma non la comunicò.
– Lo è, infatti, – confermai. – Non certo quel che speravo succedesse. Molti dei cambiamenti che stanno avvenendo nell’Europa dell’Est non mi piacciono affatto. Non credo saranno in meglio. Preferivo come andavano le cose prima, quando tutto era chiaro e tutti sapevano dove stavano.
– Se mi consente, Feliks, trovo strano che una persona che voleva cambiare tutto scopra di rammaricarsi del cambiamento.
– E se lei consente a me, Sandrine, trovo strano che una persona che non voleva cambiare niente scopra di accoglierlo con gioia.
A quella frase non seppe cosa rispondere. In effetti una risposta non c’era. Tutto dipendeva dal tipo di cambiamento che uno voleva, se lo voleva, e di fatto era molto tempo che io non ne cercavo piú, nel mondo cosí come nella vita.
Sí, sono ebreo. I miei nonni lasciarono la Russia negli anni Trenta, per sfuggire alle purghe staliniane, e i miei genitori arrivarono qui con loro. Io sono nato a New York.
– E si sente americano?
– Certo che sí –. Quella domanda parve stupirlo. – Assolutamente americano. E cosí si sentivano i miei. Se è per quello, pure i miei nonni. Non impararono mai a parlare bene l’inglese, ma erano infinitamente grati all’America che li aveva accolti. Perché me lo chiede?
– Perché, sebbene viva a Parigi da piú di quarant’anni, ho scoperto di non sentirmi francese. Per me Parigi non è casa nel modo in cui New York lo è per lei.
– Casa è dove abita il cuore, – disse Bergelson. – Il mio abita qui, in questa città. E il suo?
Mi colse alla sprovvista. La forza dei cliché non smette mai di stupirmi. Prima Sandrine Lefèvre e adesso Mark Bergelson. Il mio cuore dove abitava? Nessuno doveva avermi mai posto quella domanda, né dovevo essermela posta io. Se mi avessero costretto a rispondere, probabilmente avrei detto che stava nello stesso posto in cui abitava la testa, ma non sapevo piú nemmeno dove stava quella.
– Non lo so, – dissi.
Sul piano pratico invece lo ero perché mi si erano presentate altre e piú facili alternative. Ma non avevo mai deciso di non agire; non avevo mai preso alcuna decisione; semplicemente, avevo evitato di prenderla. In un certo senso mi sentii sollevato dalla cosa. Per quanto delicatamente formulata, l’osservazione di Bergelson mi aveva punto sul vivo. Davvero, perché non avevo mai scelto di vivere in un paese comunista, essendo oltretutto nato in uno di essi? Adesso vedevo la risposta a quella domanda. Ma era una risposta che mi sconcertava tanto quanto la domanda. Per tutta la mia vita adulta avevo aderito a un’ideologia che invocava il cambiamento, il cambiamento radicale, come soluzione ai problemi della società. Ciononostante, non avevo mai accolto il cambiamento nella mia vita. Anzi, avevo sempre opposto resistenza. Messa in quei termini, non ero meno conservatore dei destrorsi che avevo sempre disprezzato. I cambiamenti piú grossi mi erano stati puntualmente imposti dall’esterno, e per trentasei anni non ce n’erano stati affatto. I cambiamenti non mi piacevano. E non mi piacevano quelli che mi venivano imposti adesso.
– Sai, Feliks, la cosa buffa è che tu e io vediamo le cose in modo molto simile, solo che poi tiriamo conclusioni diverse. Tu vedi un paese con gente amichevole e normale e subito ti sale la diffidenza. Io invece dico, be’, che c’è di male? Tu vedi un paese dove la gente ha la possibilità di fare soldi e vivere meglio e pensi che sia ingiusto. Io dico, be’, e perché no? Tu vedi un paese dove la gente vede le cose in maniera semplice e non complicata e pensi che sia stupida. Io dico, ehi, questo sí che è un bel modo di prendere la vita!
– Tua madre aveva sempre sperato di rivedervi tutti e due. Anzi, credo se lo aspettasse proprio. Era la speranza a tenerla viva. Ma nel 1979, quando si ammalò, la speranza cominciò ad abbandonarla e si rese conto che non vi avrebbe rivisti mai piú.
Perciò vi scrisse una lunga lettera per spiegarvi tutto quello che le era capitato, per raccontarvi tutto ciò che voleva dirvi. La consegnò a me. Non l’ho letta, ma l’ho sempre conservata. Mi aveva pregato, nel caso un giorno tu o Woodrow foste comparsi, o se mi fosse capitato di incontrare qualcuno che vi conosceva, di farvela avere. Quindi ora io la consegno a te
Ma cosa poteva esserci di puro nella vita umana? Solo la morte. Ecco l’unico elemento puro della vita. La ricerca dellapurezza poteva passare solo dalla morte. Io di morte mi ero saziato abbastanza. Ora volevo la vita.
Kristin è rimasta tre settimane, tre settimane meravigliose. Cosí naturali. Credo le facesse piacere stare con me. Di sicuro le faceva piacere essere a Parigi. Per quanto mi risultasse difficile da comprendere, di fatto a cinquantatre anni era la prima volta che usciva dalla ex Germania Est, a parte quelle in cui era stata a Berlino Ovest. Capire questo mi era quasi impossibile, talmente ero abituato ad andare in altri paesi, a viaggiare continuamente, a operare confronti o a non riuscire a operarne. Per me era inconcepibile che qualcuno non l’avesse mai fatto. O, come continuava a ricordarmi Kristin, che non gli fosse mai stato permesso farlo. E cosí eccola lí a guardare Parigi con occhi vergini, o tutto il mondo con occhi vergini, e la sua meraviglia ha contagiato anche me.
A tutti noi sono successe cose che non sarebbero dovute succedere, che avremmo preferito non succedessero. Cose che ci siamo dovuti buttare alle spalle non per fingere che non siano mai accadute, ma per non rimuginarci troppo sopra, per poterci fare i conti e riuscire a costruire una nuova vita, a conoscere nuove persone. Nelle stoffe che tutti noi ci siamo tessuti esistono delle linee di faglia, ha detto lui, punti in cui la trama e l’ordito dell’esistenza si sfilacciano: se continui a tornarci sopra rischi di far sfilacciare anche tutto quello che hai tessuto dopo. Ecco che paura aveva quel giorno.
– Felice? – mi ha chiesto Kristin.
– Sí. Molto.
– Allora perché sei cosí triste?
– Senso di colpa, immagino.
– E per cosa ti senti in colpa?
– Per la felicità, – ho detto. – È stato un anno talmente straordinario. Non avrei mai creduto di poter avere un anno cosí fantastico.
Ho te. Ho Angelika. Ho ritrovato Woody. Ho venduto la guida. È pazzesco.
– E allora dove sta il problema?
– La mamma, – ho detto. – Scoprire cosa le è successo. Scoprire la sofferenza di cosí tanti altri esseri umani. E la mia stupidità, immagino.
– Non devi farla diventare la tua sofferenza, adesso.
– No, però non mi sembra giusto. È che pensi: se avrò un anno fantastico, sarà un anno fantastico, punto. Invece avere un anno
cosí e scoprire cose talmente terribili, e intanto continuare a sentire che è fantastico… insomma, non mi sembra giusto.
– Cosí è la vita, – ha detto Kristin. – Prendila com’è.
Alla fine credo esistano due tipi di storia. C’è quella dei grandi avvenimenti, del progresso scientifico in marcia, dei contrasti ideologici, delle guerre e dei disastri. E poi c’è quella vissuta da milioni di persone, in tutta Europa e in tutto il mondo. La storia delle nascite e dei neonati piagnucolanti, dell’infanzia innocente e dell’adolescenza scontrosa, della perdita dell’innocenza, dell’amore e del suo lento evaporare, delle fatiche e dei salari, del matrimonio e della famiglia, della morte. E nessuno dei grandi avvenimenti, per quanto stupefacenti, può distruggere la cronistoria di quelle vite individuali per coloro che restano. Tutto ciò che rimane è il mutevole e immutabile ciclo del tempo.
La storia dei grandi avvenimenti è rivoluzionaria e radicale, crea lacerazioni scomposte nel tessuto continuo del nostro mondo.
Dopodiché la storia delle piccole cose torna a riaffermarsi, riprendono ritmi e cicli di vita prudenti e moderati; la storia delle madri e del continuum temporale, la sarta operosa che diligentemente rammenda le lacrime scomposte restituendo integrità al tessuto.
Forse c’è persino una terza storia, la storia vera: il croupier del tempo, che prende le altre due storie e le agita insieme come dadi in un bussolotto, osservando con neutra noncuranza le ondate di marea dei grandi avvenimenti sferzare capricciose le barchette delle
vite individuali. Chi di noi si sente baciato dalla fortuna oggi? Faites vos jeux.
Da qualche parte, in questa concatenazione di eventi piccoli e grandi, prende forma la nostra vita.
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Felice che sia piaciuto anche a te. Dopo la tua recensione,mi viene voglia di rileggerlo :) gran bel romanzo, davvero!
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